L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

Dal 2007 al 2014 sono stati pubblicati più di 1300 documenti che hanno trattato argomenti riferiti al Servizio Sociale della Giustizia, agli Uffici per l'Esecuzione Penale Esterna, al Sistema dell'Esecuzione Penale Esterna attraverso solidarietaasmilano.blocspot.com

venerdì 30 aprile 2010

DdL "Messa alla prova" Magistrati sorveglianza,dubbi costituzionalita'

News ordine avvocati Agrigento

Non convince i magistrati di sorveglianza il ddl del governo che prevede la detenzione domiciliare per chi deve scontare un anno di pena e l'introduzione dell'istituto della messa alla prova per gli imputati di reati fino a tre anni.
Le nuove regole sulla detenzione domiciliare appaiono poco chiare e sono diffusi i dubbi, da parte di chi dovra' applicarle se diventeranno legge, sulla loro costituzionalita', per contrasto con l'articolo 27 della suprema Carta, e cioe' con il principio che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.
Dubbi esternati davanti alla Sesta Commissione del Csm, che sta preparando un parere sul ddl.



L'occasione per il confronto sul provvedimento, un seminario di studi al quale hanno partecipato la maggioranza dei presidenti dei tribunali di sorveglianza, 18 sui 26 dislocati su tutto il territorio nazionale.
E se le riserve sul provvedimento sono state soprattutto di natura di tecnica, diffusa e' stata la critica di fondo: non e' chiaro se questa detenzione domiciliare vada considerata una misura alternativa alla detenzione (ma in questo caso i magistrati di sorveglianza dovrebbero avere gli elementi per valutare se ammettere o no i singoli condannati alla concessione) oppure se si tratta di una sorta di 'indulto mascherato': un beneficio che dovrebbe essere applicato automaticamente a tutti coloro che sono nelle condizioni previste dal disegno di legge.
Ma in questa seconda ipotesi, hanno fatto notare in tanti, il ddl rischierebbe di finire nel nulla sotto la scure della Corte Costituzionale. Si' perche' esiste uno specifico precedente: nel 2006 la Consulta boccio' il cosiddetto 'indultino', il provvedimento introdotto tre anni prima che prevedeva come automatica e obbligatoria la sospensione condizionata dell'esecuzione della pena, per chi doveva scontare al massimo ancora due anni, e che non consentiva al giudice di sorveglianza alcuna valutazione di merito.
E questo nonostante la legge non fosse stata approvata secondo le modalità prescritte dalla Costituzione per l'emanazione di un provvedimento di indulto.
La Consulta dichiaro' l'illegittimita' per contrasto con gli articoli 3 e 27 , ritenendo 'evidente' che 'la generalizzata applicazione del trattamento di favore, nell'assegnare un identico beneficio a condannati che presentino fra loro differenti stadi di percorso di risocializzazione, compromette, non soltanto il principio di uguaglianza, finendo per omologare fra loro, senza alcuna plausibile ratio, situazioni diverse, ma anche la stessa funzione rieducativa della pena'.

Carcere: si a DDL Alfano su misure alternative ma con piano straordinario di assunzione nuovi educatori.

L'Unità, 29 aprile 2010



Sono fatte per ospitare quarantatremila persone. Attualmente, però, nelle carceri italiane, ci vivono in più di sessantasettemila. Come? "Ho visto, pochi giorni fa, celle di otto metri quadri, con due letti a castello e una terza branda piegata che i detenuti possono aprire solo la sera per andare a dormire altrimenti nella cella non hanno lo spazio nemmeno per muoversi e questo nel carcere di Pavia che non è certo uno dei peggiori della penisola", racconta Rita Bernardini, radicale e deputata eletta nelle fila del Pd, arrivata ormai al suo quindicesimo giorno di sciopero della fame (oggi) perché governo e parlamento facciano qualcosa per disinnescare la bomba "demografica" che sta facendo esplodere le carceri italiane: 7-800 detenuti in più ogni mese, che, a questo ritmo, entro l'estate supereranno quota 70mila. Sono già 67.452, al 21 aprile, secondo i dati del ministero della Giustizia. Ventiquattromila in più rispetto alla capienza regolamentare. Stipati nelle celle. Con un tasso di suicidi che è il più alto in Europa, il ventiduesimo si è ucciso due giorni fa nel carcere di Teramo.



E chi non si ammazza è comunque costretto a patire una pena aggiuntiva, che nessun giudice ha deciso e nessun parlamento ha previsto. Quella del sovraffollamento. E di un carcere che si riduce sempre più alla sola detenzione in cella. Mancano psicologi, educatori, figure sanitarie. Manca personale per fare qualsiasi cosa.


"Richiamare negli istituti di pena gli agenti "imbucati" al ministero della Giustizia" sarebbe un inizio, suggerisce Rita Bernardini, che sferza i sindacati di polizia: "Da tre anni non viene rinnovato il contratto agli agenti penitenziari". Risultato: nel migliore dei casi (vedi Pavia) i detenuti, hanno 4 ore d'aria al giorno più una di socialità e trascorrono in cella le rimanenti 19 ore, ma a Poggio Reale o l'Ucciardone, in cella ci stanno fino a 22 ore. Mentre solo il 15% in media è impiegato in attività lavorative.


La via delle pene alternative negli ultimi anni è stata drammaticamente abbandonata dall'Italia, che già arrancava dietro a paesi come il Regno Unito, che già nel 2007 applicava le pene detentive a 220mila detenuti e riservava il carcere a 87mila detenuti (meno della metà). Nel 2006 quando fu varato l'indulto, i detenuti che scontavano pene alternative al carcere in Italia erano circa 40 mila, oggi non arrivano nemmeno a 10 mila.

Cifre che parlano di una "temibile regressione culturale nella concezione della pena", denuncia Luigi Manconi, presidente di "A buon diritto". A testimonianza del pregiudizio che dilaga dietro questi numeri, Manconi cita una recente polemica: "Due ergastolani erano evasi dal permesso premio di Pasqua e, intervistato dal Gr1, il segretario generale del più grande sindacato della polizia penitenziaria a domanda ha risposto che ad evadere dai permessi premio sono un buon 10 per cento. Mentre la cifra è molto più bassa: 0.17%".


Altrettanto bassa è la cifra di quanti violano le misure alternative al carcere: oscilla tra lo 0,7 e l'1,15%. "Le misure alternative che vengono date con un'avarizia impressionante per paura dell'opinione pubblica sono una misura efficacissima che ha un tasso di violazione praticamente irrisorio", osserva Manconi, che cita ancora un dato: "La recidiva tra coloro che scontano la pena in cella senza usufruire di sconti o condoni è del 68%, tra coloro che hanno beneficiato dell'indulto è stata del 27,1%".


E intanto il ddl Alfano che se varato potrebbe aprire la strada delle pene alternative a 12mila detenuti, arranca in parlamento. I radicali e il Pd chiedono di modificarlo. Ma se approvato consentirebbe almeno di invertire in extremis la via rovinosa del carcere per tutti praticata in questi anni.

Anm: cambiare ddl su messa in prova altrimenti fallirà

Agi, 30 aprile 2010

Il disegno di legge che prevede la messa in prova i detenuti che hanno compiuto reati puniti con pena inferiore a 3 anni di reclusione e la detenzione domiciliare per chi deve scontare una pena residua di un anno deve essere in parte modificato, altrimenti le nuove norme non avranno gli effetti sperati.

Lo sostiene l’Associazione nazionale magistrati, che oggi pomeriggio è stata ascoltata in audizione dalla Commissione Giustizia della Camera. "L’impianto del provvedimento - spiega Luca Palamara, presidente dell’Anm - è condivisibile, ma se non verranno attuate alcune modifiche rischia di togliere potere di valutazione al giudice e di avere un impatto negativo sui tribunali di sorveglianza".

Il sindacato delle toghe, dunque, esprime "perplessità" sulla scelta, contenuta nel ddl, di "sottrarre al magistrato di sorveglianza ogni valutazione sulla idoneità della misura" della detenzione domiciliare: si passerebbe, sottolinea Palamara, "da un automatismo all’altro: oggi è vietato in ogni caso, anche in assenza di pericolosità, concedere la detenzione domiciliare al recidivo, domani sarebbe obbligatoria l’applicazione del nuovo istituto anche ad un soggetto al quale siano state già rigettate istanze di applicazione di benefici, in quanto ritenuto, in concreto, pericoloso".

Inoltre, appare "necessaria - rileva l’Anm - una valutazione sull’impatto della riforma sui tribunali di sorveglianza, i quali, nella fase immediatamente successiva all’entrata in vigore della legge, saranno chiamati a far fronte, in un brevissimo termine, a oltre 10mila istanze".

Più positivo il giudizio dei magistrati sull’istituto della messa in prova: "questa - ricorda Palamara - era già stata proposta come strumento per deflazionare il dibattimento e per ridurre gli eccessi di carcerazione per fatti di minore gravità e per pene brevi". Secondo il sindacato delle toghe, però, l’introduzione del nuovo istituto "va tempestivamente accompagnata da misure efficaci di dotazione delle strutture pubbliche di mezzi e professionalità idonei a rendere effettiva la misura e adeguati i controlli sulla sua esecuzione. La effettiva possibilità di rendere concretamente applicabile l’istituto - conclude l’Anm - rappresenta una condizione ineludibile senza la quale si rischia di condannare al fallimento una misura di civiltà e di razionalità".

Detenzione domicilare: decreto pronto? il Cdm non lo esamina


Ansa, 30 aprile 2010

È pronto il decreto legge con cui il governo punta ad alleggerire, almeno in parte, il sovraffollamento delle carceri. Il provvedimento era stato preannunciato due settimane fa dal premier Silvio Berlusconi, e prevede la detenzione domiciliare al condannato al quale resti da scontare un anno di carcere o al condannato a una pena detentiva non superiore a un anno.

La bozza di provvedimento ricalca a larghe linee il testo del ddl ora all’esame della Commissione giustizia della Camera, tranne la cosiddetta "messa alla prove" per gli imputabili di reati puniti con pene fino a tre anni. Stralciata quest’ultima parte (su cui la Lega si è detta contraria), il decreto si limiterà a introdurre un nuovo principio, e cioè che le pene detentive non superiori a un anno, di regola, debbano essere espiate presso un domicilio esterno al carcere. A regime si pensa che le carceri saranno così alleggerite di circa 2mila detenuti all’anno (il sovraffollamento è ora pari a oltre 67.000 detenuti contro una capienza regolamentare di circa 43mila posti).

Ma la bozza di decreto introduce numerosi "paletti": non potranno avere la detenzione domiciliare coloro che sono stati condannati per reati di particolare allarme sociale (delitti di mafia, terrorismo, sequestro di persona a scopo di estorsione, omicidio, rapina, etc.); esclusi anche i delinquenti abituali, professionali o per tendenza, come pure coloro che sono sottoposti a regime di sorveglianza particolare o i condannati ai quali sia stata revocata una misura alternativa. E ancora: la detenzione domiciliare non sarà automatica in quanto spetterà al magistrato di sorveglianza decidere su ciascun caso; non sarà concessa nel caso in cui il domicilio non sia idoneo o quando il condannato in carcere abbia riportato provvedimenti disciplinari che fanno emergere il pericolo concreto di fuga.

Previste, infine, due misure di carattere repressivo: aumentare le pene per chi evade (anche in caso di allontanamento dal luogo di detenzione domiciliare), con un raddoppio del minimo della pena (da 6 mesi a un anno) e con un triplicarsi del minimo (da uno a tre anni); introdurre nel codice penale una aggravante (con aumento delle pene di un terzo) per i delitti commessi dal condannato sottoposto a misure alternative.

giovedì 29 aprile 2010

L'ORDINE DEGLI ASSISTENTI SOCIALI SCRIVE AL CAPO DELL' AMM. PENITNZIARIA SU SITUAZIONE UFFICI DELL' ESECUZIONE PENALE ESTERNA

Roma, 27 aprile 2010
Prot. n. 1184/2010
Al Dott. Franco Ionta
Capo Dipartimento
Dipartimento Amministrazione
Penitenziaria
Dott.ssa Luigia Mariotti Culla
Direttore
Istituto per gli Studi Penitenziari
Dott. Riccardo Turrini Vita
Direttore
Direzione Generale Esecuzione
Penale Esterna
LORO SEDI

L’Ordine degli Assistenti Sociali ritiene di dover sottoporre all’attenzione delle SS.LL. alcune considerazioni in merito al servizio sociale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, traendo spunto dai contenuti di una recente lettera circolare emessa dal Capo Dipartimento, Dott. Franco Ionta, che richiamano aspetti di stretta attinenza all’operato professionale degli assistenti sociali nella gestione delle misure alternative e, in particolare, dell’affidamento in prova al servizio sociale.
L’Ordine, come ente cui compete il compito di tutela della professione, ma anche di salvaguardia dei diritti delle persone a cui gli assistenti sociali rivolgono i propri interventi professionali, ha da tempo segnalato le condizioni di grande difficoltà e disagio attraversate dal servizio sociale della Giustizia, come conseguenza sia della realtà sempre più complessa del sistema dell’esecuzione penale e della drammatica situazione degli istituti di pena, sia delle scelte politiche e organizzative attuate. Tali scelte, come già evidenziato nella nostra nota del 23.07.2009, stanno mettendo in pericolo la persistenza stessa di qualsiasi forma di intervento di protezione e reinserimento sociale, con tagli nelle risorse umane, economiche e strumentali che hanno avuto immediata e diretta ricaduta soprattutto sui servizi periferici.
In assenza di significative risposte e interventi correttivi, la situazione è, in questo ultimo anno, divenuta ancor più critica, e ormai molti uffici per l’esecuzione penale esterna sono al collasso operativo, come si evince dai documenti con i quali quasi tutti gli Uepe segnalano criticità tali da rendere sempre più arduo l’assolvimento del mandato istituzionale.
Alla luce di questa generale situazione vanno valutati i contenuti della succitata nota circolare.
Se è condivisibile l’obiettivo di pervenire alla migliore gestione delle misure alternative alla detenzione carceraria, come indicato dall’onorevole Ministro Alfano per l’anno 2009, non si può invece che esprimere perplessità per le modalità con le quali si ritiene di poter perseguire tale obiettivo e, più in generale, con i contenuti della circolare.
In primo luogo appare incomprensibile la mancata considerazione della situazione degli Uepe e, invece di concrete risposte alle richieste avanzate, si è ritenuto necessario diramare una circolare nella quale si richiamano i servizi locali a rifarsi, nella gestione dei condannati ammessi all’affidamento in prova, a quei criteri di “prossimità frequente” che erano stati individuati nel periodo in cui, per effetto dell’indulto, il numero delle misure alternative si era drasticamente ridotto.
Nel diramare tale disposizione non sembra si sia tenuto conto del fatto che oggi il contesto è completamente cambiato e che il costante aumento del numero di soggetti seguiti dagli Uepe, unitamente alla sopra delineata realtà di tali uffici, rende impraticabili nell’operatività degli assistenti sociali tali criteri di “prossimità frequente”.
Anche il richiamo al necessario maggior utilizzo dello strumento professionale della visita domiciliare, se condivisibile in linea generale, appare anacronistico se si considera il grido di allarme che gli assistenti sociali degli Uepe stanno lanciando ormai da più di un anno, allarme che scaturisce da una realtà degli uffici che ormai non sembra più consentire prestazioni che possano rispondere a parametri professionali di livello minimamente adeguato.
E’ opinione di questo Ordine professionale che sia la condizione in cui versano gli Uepe, con le crescenti difficoltà ad attivare quegli interventi professionali che avevano garantito il raggiungimento di positivi risultati soprattutto nella gestione dell’affidamento, a contrastare con la buona amministrazione e ad inficiare l'efficacia dell'intervento professionale degli assistenti sociali.
Inoltre, eccessivamente semplificatorio appare il ragionamento in base al quale si fa derivare la minore concessione di misure alternative – con il conseguente aumento dei condannati detenuti – da una supposta “rarefazione di funzioni di controllo e di verifica”.
Da un lato si semplifica una realtà, quella penale, che sta divenendo sempre più articolata e complessa, a fronte di una minore rispondenza dei territori in termini di risorse disponibili, di iniziative e possibilità di collaborazione con il sistema penitenziario. Si può, quindi, sostenere che il minor ricorso alle misure alternative deriva dalle mutate condizioni delle persone condannate e della realtà della comunità esterna, con le evidenti trasformazioni quantitative e, soprattutto, con l’incremento numerico di soggetti portatori di problematiche a cui è sempre più difficile far fronte, sia per nuove leggi, sia per la riduzione delle risorse disponibili.
Dall’altro lato, sembra volersi attribuire allo strumento professionale della visita domiciliare una prevalente funzione di controllo e verifica.
Invece, come risulta evidente dai riferimenti dottrinari citati, la visita domiciliare riveste in primis un significato di colloquio che si svolge in un contesto familiare per l’utente, a cui va attribuito un senso nel contesto più ampio della relazione interpersonale professionale 1. Inoltre, si ritiene che la visita domiciliare effettuata senza preavviso, con evidente prevalenza di una finalità di controllo, non costituisca “(…) una modalità operativa con un senso professionale 2.
La ratio che è stata alla base dell’inserimento nell’ambito penale di una professione quale quella dell’assistente sociale, e la funzione attribuitagli nella gestione dell’affidamento in prova al servizio sociale, scaturiva dall’idea che si potesse coniugare un percorso di reintegrazione sociale della persona condannata alla garanzia di un controllo effettuato mediante un trattamento che non fosse meramente fiscale, ma attuato in ambito comunitario e svolto secondo la competenza e la metodologia propria del servizio sociale.




1 Dal Pra M.,Lineamenti di servizio sociale, Astrolabio, Roma, 1987.
2 Andrenacci R., La visita domiciliare di servizio sociale, Carocci Faber, Roma, 2009

Da queste considerazioni non può che derivare un netto dissenso rispetto all’indicazione, data agli uffici locali, di contenimento del tempo lavoro dedicato a riunioni e contatti con organi di amministrazioni ed enti locali, così come il tempo dedicato a gruppi di studio, come se tali attività avessero come solo significato quello di distogliere il personale dall’assolvimento dei compiti istituzionali. Al riguardo, due sono le sottolineature imprescindibili.

I Centri di servizio sociale per adulti, ora Uffici per l’esecuzione penale esterna, sin dalla loro istituzione si sono caratterizzati come strutture che dovevano porsi in una logica di integrazione con il territorio. In tale ottica, il servizio sociale ha impostato la propria pratica di intervento sull’attivazione della metodologia del lavoro di rete, sia per gli interventi rivolti al caso singolo, sia con una politica del servizio mirante ad inserirsi nel tessuto sociale circostante, mediante la creazione di reti di collaborazione e contatti formali con gli altri servizi e le altre agenzie del territorio.
Tutto questo non può essere disconosciuto e vanificato.
E' ormai acquisito il valore della formazione come leva strategica fondamentale, non solo per lo sviluppo professionale dei dipendenti, ma anche per migliorare la qualità delle prestazioni e degli interventi e, in termini più generali, il livello qualitativo del servizio reso.
E' in atto in tutta la Pubblica Amministrazione un processo che mira a investire risorse nella formazione per migliorare la qualità dei servizi. Tale processo parte dalla valutazione che i mutamenti in atto nel sistema dei servizi alla persona - sotto il profilo normativo, organizzativo e gestionale -, e la varietà e complessità dei problemi cui il sistema è chiamato nel rispetto e tutela dei diritti delle persone, pongono in particolare rilievo la necessità di prefigurare azioni continuative tese ad alimentare conoscenze, competenze, abilità dei professionisti che operano nel sistema stesso. In tal senso, anche in risposta alla normativa comunitaria che richiama la

necessità di adeguate conoscenze e di competenze da aggiornare ed arricchire periodicamente, tutte le professioni prevedono la formazione continua come dovere dei professionisti.
In un contesto come quello sopra delineato, con le evidenti problematiche che condizionano negativamente e rischiano addirittura di bloccare la realtà organizzativa e le pratiche professionali degli Uepe, si vuole infine richiamare l'attenzione delle SS.LL sulla necessità di monitorare e valutare attentamente le ricadute che l'approvazione del disegno di legge sulla esecuzione delle pene presso il domicilio e sulla messa alla prova avrebbe su tali uffici.
E' facilmente ipotizzabile che le nuove misure previste, in assenza di adeguati incrementi delle risorse finanziarie, umane e strumentali, determinerebbe un ulteriore aggravio che non potrebbe essere evidentemente sostenuto dagli Uepe, se non svilendo definitivamente il senso del loro lavoro.
Come evidenziato dal Consigliere Riccardo Turrini Vita3, la lettura del fine della legge deve sempre farsi congiuntamente con le norme di organizzazione degli uffici e soprattutto con quelle che qualificano e destinano risorse umane e finanziarie, perché indicare fini da perseguire senza risorse è velleitario.
Alla luce di tali considerazioni, questo Ordine professionale ritiene doveroso esprimere la propria profonda preoccupazione per la condizione di emergenza del servizio sociale del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria che, se non risolta, può significare perdita di legittimazione e di senso del lavoro del servizio sociale; richiama l'attenzione sul rischio che vada disperso il patrimonio di competenze e di buone pratiche professionali maturate dal servizio sociale, sia nell'area penale esterna, che all'interno degli istituti penitenziari; ribadisce il positivo e specifico apporto
professionale degli assistenti sociali per l'implementazione dei principi cardine dell'ordinamento penitenziario, nel rispetto delle dignità della persona; ritiene non più procrastinabile un intervento complessivo che preveda finalmente concrete misure che restituiscano agli Uepe la possibilità di espletare le loro funzioni, nella piena rispondenza al mandato istituzionale e costituzionale.
Cordiali saluti.
La Presidente
Franca Dente

martedì 27 aprile 2010

Camera; prosegue esame Ddl detenzione domiciliare


Asca, 27 aprile 2010

Oggi e giovedì in Commissione Giustizia prosegue il rapido iter del ddl governativo 3291 contenente norme per l’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno e la sospensione del procedimento con la messa in prova. In merito la scorsa settimana il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo ha fornito una relazione tecnica sul numero dei detenuti precisando che la detenzione domiciliare dovrebbe essere applicata a regime a circa 2.000 carcerati. Ha escluso che questa sia una forma di condono mascherato e ha ricordato il piano carceri del governo per realizzare in 18 mesi 11.000 nuovi posti. Nella seduta di domani su questo progetto normativo saranno ascoltati i rappresentanti dell’Anm, del Consiglio Nazionale Forense, dell’Organismo unitario dell’Avvocatura e dell’Unione Camere Penali.

Critiche al Ddl Alfano, dai magistrati di sorveglianza


di Lionello Mancini

Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2010

Il disegno di legge n. 3291, che dovrebbe alleggerire il sovraffollamento carcerario rischia di azionare una manovra "lenta e anche rischiosa". Parola di Francesco Maisto, 64 anni, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna. Maisto ha contribuito alla preparazione della legge Gozzini, ma non approva questo "rendere ordinaria la clemenza permanente" ed è d’accordo con l’Unione delle Camere penali: questo progetto non va, meglio ripristinare le misure alternative alla detenzione. "Per i tossicodipendenti detenuti - spiega - sarebbe già efficace la modifica della disciplina della recidiva, chiesta anche da Carlo Giovanardi".

L’analisi del testo del Ddl 3291 è stata messa a punto nei giorni scorsi in una riunione dei presidenti dei tribunali di sorveglianza, convocata dalla VI commissione e contribuirà alla formazione del parere del Consiglio superiore della magistratura sulla normativa. Secondo le toghe, la legge è anche pericolosa "perché il suo carattere automatico la fa funzionare di fatto come un indulto, pur non essendo tale". Non sono consentiti accertamenti, "viene negato ogni spazio discrezionale al giudizio e quindi, ogni valutazione sulle possibilità di recidiva".

E cosa succederà per i reati di maltrattamenti e di violenza sessuale in famiglia? "L’assegnazione al domicilio coniugale è obbligatoria, non esiste la previsione di un domicilio diverso da quello della persona offesa, né dal luogo di commissione del reato".

E se, grazie agli automatismi del 3291, un detenuto potrà godere dell’alternativa domiciliare per un anno "anche quando il Tribunale di Sorveglianza abbia rigettato una o più richieste di misure alternative "è evidente l’effetto di delegittimazione che se ne ottiene. È vero che il Ddl introduce la novità di una relazione sulla condotta in carcere, ma, commenta Maisto "un detenuto potrebbe comportarsi bene in cella e non a casa"; né viene precisato il periodo di condotta da prendere in considerazione: "Si tratta, in definitiva, di una relazione ben diversa dall’attuale studio sulla personalità del soggetto, sul suo grado di partecipazione al percorso di rieducazione", nulla che serva a escludere una possibile recidiva.

Il raccordo del testo con le norme dell’Ordinamento penitenziario non esclude, poi, possibili deroghe che sospendano la permanenza in casa: di fatto la selezione dei beneficiari la farà solo l’Amministrazione, senza alcuna valutazione del magistrato. Né mancano i paradossi: "Se una persona libera deve espiare una pena di un anno, non conta nemmeno la condotta: va a casa e basta".

Infine, la legge è lenta. La rapidità dell’azione viene invocata dai garanti dei detenuti e anche sottolineata nella relazione al Ddl, dove si parla di 48 ore. Mai tempi reali saranno ben diversi. Innanzitutto è prevedibile la sospensione di alcuni procedimenti per dubbi di costituzionalità, come già avviene per l’indultino e per l’espulsione ex articolo 16 del Testo unico sull’immigrazione; soprattutto, vanno considerate le gravissime carenze degli uffici che dovrebbero affrontare migliaia di casi entro poche ore, pur soffrendo "di scoperture e insufficienze di organici di magistrati, cancellieri, della polizia penitenziaria, educatori, assistenti sociali".

P. Ciardiello – Relazione al Convegno “Detenzione domiciliare e messa alla prova: vera opportunità per un sistema in crisi?”

Seminario di approfondimento sulle misure alternative al carcere dal titolo: ‘detenzione domiciliare e messa alla prova: una reale opportunità per un sistema in crisi?’ organizzato dal gruppo PD alla Camera dei deputati
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Prima di entrare nel merito delle questioni al centro della comune attenzione, reputo opportuna una premessa di tipo metodologico. L'insieme delle considerazioni che mi accingo a condividere con i presenti si svilupperà utilizzando la formula interrogativa molto opportunamente scelta dagli organizzatori. In altri termini, darò per assunti alcuni elementi che costituiscono la premessa e l'orizzonte di senso in cui inscrivere le considerazioni stesse e che riassumerò in forma più che sintetica, a maggior ragione considerando che sono state profusamente richiamate da chi mi ha preceduta.
Primo assunto. L'attuale situazione delle carceri (ma, ineludibilmente, anche quello che si occupa di gestione delle misure alternative alla detenzione) impone interventi indifferibili che consentano in tempi il più possibile rapidi una significativa riduzione della popolazione detenuta e il mantenimento della medesima entro quote compatibili con il rispetto dovuto a ogni persona detenuta, con la concreta capacità del sistema di far fronte ai complessi compiti affidatigli e con le finalità attribuite alla pena dalla nostra Carta fondamentale.
Secondo assunto. Per una pena costituzionalmente orientata, è necessario orientarsi verso la riduzione del numero di comportamenti da qualificare come reati e del numero dei reati da punire con la privazione della libertà, nel solco tracciato da tutte le commissioni per la riforma del Codice penale che nelle ultime legislature si sono pronunciate per la necessità di un'inversione di tendenza rispetto alla progressiva espansione della sfera di incidenza del diritto penale, attestata, per fare riferimento solo al decorso anno, all’emanazione delle L.94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) e 38 (misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori).
Terzo assunto. Qualsiasi intervento, normativo e amministrativo, che si configuri come tappa
di avvicinamento ai traguardi impliciti nei primi due assunti non può che raccogliere il consenso di quanti, per ragioni differenti, abbiano dovuto o voluto sperimentare la diretta implicazione nella declinazione del potere punitivo dello stato, le cui posizioni, da diversi lustri, registrano sostanziale convergenza sui primi due assunti.
Tanto premesso, offrirò il mio contributo al confronto odierno alla luce della possibilità che le misure annunciate possano tener compiutamente conto dei tre assunti che è plausibile considerare come paradigmatici di qualsiasi intervento si ponga l'obiettivo di individuare soluzioni alla crisi ‐ oggi acuita, ma invero non recente ‐ che non abbiano il respiro corto della contingenza e che possano essere considerate prodromiche alle riforme auspicate.

L'art. 1 (Esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a un anno).

Una prima considerazione concerne il previgente art. 47 ter co. 1bis, che non ha obiettivamente inciso sul sovraffollamento.T (La detenzione domiciliare può essere applicata per l'espiazione della pena detentiva inflitta in misura non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, indipendentemente dalle condizioni di cui al comma 1 quando non ricorrono i presupposti per l'affidamento in prova al servizio sociale e sempre che
tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati. La presente disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all'articolo 4bis e a quelli cui sia stata applicata la recidiva prevista dall' articolo 99, quarto comma, del codice penale).

Il primo comma riporta: "la pena detentiva... è eseguita presso l'abitazione del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza". Risulta evidente che presupposto indispensabile per l'ammissione alla misura sia la disponibilità di "un'abitazione o di altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza". Si tratta di una disponibilità che non è possibile considerare generalizzata e che, pertanto, si prospetta la possibilità che persone astrattamente ammissibili alla misura non possano accedervi per la penuria di risorse abitative o di luoghi di cura, specie nel caso si tratti di stranieri che con più difficoltà riescono a fruire delle già scarse risorse di welfare disponibili. La formulazione del testo risulta assertiva (“la pena detentiva è eseguita”) ed implica, di conseguenza, una applicazione non soggetta a valutazione discrezionale. Allo stesso modo, nel secondo comma, con riferimento al PM che "sospende l'esecuzione dell'ordine di carcerazione e trasmette gli atti al MdS... affinché provveda". Il terzo comma detta disposizioni riferite ai condannati detenuti, precisando che "la direzione dell'istituto penitenziario trasmette al MdS una relazione sulla condotta tenuta durante la detenzione".

Alcune domande che tale formulazione consente di fare:

1. Come sarà possibile rispondere tempestivamente all’aumento delle incombenze del personale pedagogico più direttamente interessato dalla produzione delle relazioni comportamentali considerato che ad una recente interrogazione parlamentare (n. 5‐02550 dell’On. Ferranti e altri) che poneva la questione dell’esiguità di tali figure, uno dei sottosegretari ha asserito l’impossibilità di effettuare altre assunzioni per indisponibilità finanziaria subordinando la soluzione a futuri ed incerti stanziamenti?
Si tenga conto, peraltro, che è stato approvato dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato, un emendamento al Ddl n. 1955, volto alla conversione in Legge del D.L. 194‐2009, in cui si stabilisce la riduzione del 10% delle dotazioni organiche della PA, che ovviamente andrà ad investire anche la già esigua pianta organica degli educatori.
2. A quale finalità risponde la previsione che il MdS debba provvedere in presenza della "relazione sulla condotta"?
3. È plausibile ritenere che tale previsione comporti il venir meno della tassatività contemplata dal primo comma dell'articolo con riguardo ai condannati non detenuti e, dunque, la possibilità che il MdS, esercitando il potere discrezionale che gli è proprio, non ammetta il condannato alla misura?
4. In caso di risposta affermativa a tale domanda, è plausibile ritenere che, in presenza di una condotta non regolare (costrutto da sempre oggetto di interpretazioni assai difformi), il MdS sia legittimato a non ammettere il condannato alla misura?
5. Gli estensori del testo hanno tenuto conto della alta probabilità statistica ‐specie in considerazione delle assai critiche condizioni di detenzione nelle carceri sovraffollate ‐ che i condannati incorrano in infrazioni disciplinari suscettibili di influenzare il percorso di mitigazione o trasformazione della condanna detentiva?
6. La relazione comportamentale dovrà, come nel caso della riduzione di pena ex art. 54 O.P., tener conto dei periodi di detenzione espiati presso altre carceri?
7. In caso di risposta affermativa, si è tenuto conto che la raccolta di tali informazioni, spesso non presenti nella cartella personale del condannato, risulta foriera di notevoli appesantimenti dei tempi tecnici, anche in considerazione delle molto critiche condizioni degli Uffici di sorveglianza?
8. Sono sufficienti per distinguere la misura in argomento dalla detenzione domiciliare la competenza del giudice monocratico, la sua minor durata e la procedura semplificata? In altri termini, è applicabile alla misura in argomento quanto sancito dalla Corte di Cassazione nel 2006 ( I sez. sentenza del 13 luglio) che ha affermato che la residualità, nella gerarchia delle misure alternative alla detenzione, della detenzione domiciliare non legittima l'ammissione al beneficio in caso di "immeritevolezza" del condannato?
9. È costituzionalmente compatibile ed efficace, sia nella prospettiva della prevenzione generale che in quella della prevenzione speciale, subordinare una misura volta al reinserimento sociale ‐ specie per condannati a pene modeste per reati non gravi ‐ alla valutazione di una "meritevolezza" definita ed accertata con le modalità indicate?
10. Anticipando più vaste ed organiche misure di decarcerizzazione, tali condannati a pene modeste per reati non gravi (non delinquenti abituali, non destinatari di una precedente detenzione domiciliare che sia stata revocata) non potrebbero essere ammessi all'affidamento in prova ai servizi sociali, misura che consente di dedicarsi ad un'attività di lavoro o di studio e di costruire le premesse di quel reinserimento sociale che è il fine di qualunque pena?
Venendo alle preclusioni contemplate dal comma 5 lettera a), è possibile anticipare che le preclusioni previste per i soggetti condannati per "taluno (quali?) dei reati ex art. 4 bis" comporteranno una riduzione cospicua del numero dei potenziali destinatari? Anche in tali casi evitare tali preclusioni, consentendo l'anticipazione ‐ magari condizionata ‐ del termine della pena, avrebbe consentito di ridurre gli effetti negativi di una detenzione comunque vicina alla sua completa espiazione e di avviare la ripresa delle relazioni sociali e familiari.
La previsione ex lettera c) dello stesso comma 5 che contempla che alla misura non possano essere ammessi i soggetti sottoposti al regime di sorveglianza particolare, implica alcune considerazioni.
a) esiste la possibilità – nel diritto penitenziario vivente assai concreta – che il regime venga applicato anche in presenza di singole condotte turbative dell’ordine e della sicurezza (sanzionabili attraverso le misure disciplinari ordinarie) anziché, come lo stesso legislatore indica attraverso l’uso del plurale, di comportamenti reiterati, dunque NON occasionali e NON episodici. In numerosi istituti del paese, tale regime è applicato in aggiunta al regime disciplinare e non solo ove esso è risultato inefficace;
b) occorre tenere presente che, ai sensi del 4° comma, “in caso di necessità ed urgenza”, la persona detenuta può essere sottoposta al regime in via provvisoria, senza acquisire i “pareri prescritti”; c) la tipizzazione delle condotte legittimanti il ricorso al regime, è, nel caso del 5° comma dell’art. 14 ter, assolutamente indeterminata: vaghi, infatti, sono i riferimenti ai “precedenti comportamenti penitenziari” e agli “altri concreti comportamenti tenuti, indipendentemente dalla natura dell’imputazione, nello stato di libertà”;
d) la formulazione del testo non consente di individuare in modo inequivoco l’arco temporale entro il quale la sottoposizione a tale regime dovrebbe UeventualmenteU essere presa in considerazione per dichiarare l’inammissibilità al beneficio in esame: ad esempio, a quando dovrebbe risalire la sottoposizione a regime di sorveglianza particolare? a 6 mesi, 12 mesi, 18 mesi prima del termine di dodici mesi residui di pena? Nel caso tale esclusione dovesse permanere, occorrerebbe almeno, in chiave di riduzione del danno, circoscrivere il periodo di “regolare condotta” a non oltre un semestre precedente alla scadenza dei dodici mesi residui.

Art. 2. Modifiche all’art. 385 del Codice penale.

Considerata l’opzione deflattiva sottostante alla scelta di introdurre l’esecuzione delle pene
presso il domicilio, non si comprende la ratio ispiratrice dell’’inasprimento delle pene previste per l’evasione, in quanto la vigente previsione normativa appare del tutto adeguata a
sancire negativamente l’evasione, e non solo attraverso la revoca della misura. Nel testo non sono presenti riferimenti a prescrizioni concernenti la possibilità che il condannato possa fruire di permessi per motivi di salute o personali. È opportuno, a tale riguardo, fare qualche riflessione sui dati statistici che indicano nella detenzione domiciliare concessa a persone provenienti dal carcere la misura alternativa col più alto tasso di revoche per andamento negativo, in ragione della particolare criticità della gestione della relativa condizione e del più alto numero di controlli effettuati dalle FF.OO. (nel 2009, rispetto all’affidamento in prova dalla detenzione: 2,75% di revoche; rispetto alla detenzione domiciliare dalla detenzione: 4,19 di revoche). Considerato che il disegno di legge contempla un forte inasprimento delle pene per l’evasione, è plausibile anticipare che – nel caso non venga effettuato un esame relativo al merito delle circostanze che hanno prodotto l’allontanamento dal domicilio ‐ le eventuali revoche si traducano in un surplus sanzionatorio che produrrebbe effetti contrari alla auspicata deflazione penitenziaria da cui il disegno di legge ha origine?

Articolo 3. Modifiche al c.p. in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova
Essendo plausibile temere che il giudice decida per la sottoposizione dell’imputato alla prova pur in assenza di sufficienti indizi di colpevolezza, si registra l’assenza della formula analoga a quella ora presente nell’art. 444 c.p.p. per la concessione del beneficio quando “non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129” espressa nel successivo art. 464 quater.
La sospensione del procedimento con messa alla prova è subordinata alla prestazione del lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 168-quinquies.
L’introduzione del “principio per cui nessun beneficio può essere concesso senza che l’imputato assicuri un ristoro all’offesa rappresentata dalla condotta criminosa” implica un forte cambiamento di prospettiva: immediata conseguenza è che vengono Umodificati anche i presupposti per la concessione dell’affidamento in prova al servizio socialeU (V. successivo art. 6) e la trasformazione del lavoro di pubblica utilità da sanzione sostitutiva (dunque, una vera e propria pena) a obbligo accessorio, addirittura anche nel caso della libertà controllata (che può essere concessa quando il giudice sostituisca la pena detentiva entro sei mesi). Si utilizza, in pratica, una ex pena, sia pure sostitutiva, per attribuire valenza retributiva ad una misura introdotta, non si dimentichi, per Ureati di modesta entità commessi da non recidivi Uche, anche
prima dell’introduzione della nuova misura, consentivano agli autori di reato di non entrare in carcere.

La sospensione del procedimento con messa alla prova non può essere concessa più di una volta per delitti della stessa indole e, comunque, più di due volte.
Da questa previsione risulta non chiaro se la seconda concessione possa ammettersi anche nel caso che l’esito della prima prova sia stato negativo.
La sospensione non può, altresì, essere concessa ai soggetti di cui all’articolo 99, quarto comma
(“Se il recidivo commette un altro reato, l'aumento della pena, nel caso preveduto dalla prima parte di questo articolo, puo' essere fino alla meta' e, nei casi preveduti dai numeri 1) e 2) del primo capoverso, puo' essere fino a due terzi; nel caso preveduto dal numero 3) dello stesso capoverso puo' essere da un terzo ai due terzi”), che abbiano riportato condanne per delitti della stessa indole rispetto a quello per cui si procede.
La previsione che il surplus sanzionatorio introdotto dalla L. 215 del 2005 che ha modificato l'istituto della recidiva operi anche rispetto alla nuova misura della messa alla prova comporterà verosimilmente ‐ al di là di qualunque considerazione sul venir meno della possibilità di individualizzare la sanzione e sulla sostanziale equiparazione, quanto a fruibilità di misure alternative alla detenzione, dei recidivi reiterati ai detenuti per gravi delitti associativi et similiaT
Articolo 168-quinquies. - (Lavoro di pubblica utilità)
Il lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, per un periodo non inferiore a dieci giorni né
superiore a due anni.
L’attività viene svolta nell’ambito del comune dove il condannato ha la residenza o il domicilio o, ove non sia possibile, presso la provincia, e comporta la prestazione di non meno di quattro e non più di dodici ore settimanali, da svolgersi con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato.
La durata giornaliera della prestazione non può comunque superare le quattro ore.
L’applicazione del lavoro di pubblica utilità è subordinata al consenso dell’imputato.
La mancanza del consenso rende inapplicabili gli istituti la cui concessione è subordinata alla prestazione del lavoro di pubblica utilità.
La previsione in argomento presuppone una vasta disponibilità di opportunità allestite da stato, regioni ed enti locali che non è possibile dare per scontata, con possibili ripercussioni per la concreta fruibilità della misura, con particolare riferimento agli stranieri. Inoltre, occorre considerare che Urecenti disposizioni dell’amministrazione penitenziaria impongono agli assistenti sociali di impegnarsi esclusivamente nelle attività di aiutocontrollo nei confronti degli affidati, lasciando ai margini tutte le attività da svolgere nelle comunità locali Uper sollecitare le istituzioni all’inclusione delle persone in esecuzione penale nelle politiche concernenti le misure di welfare, in consonanza, peraltro, con le “Linee guida per l’inclusione sociale” di recente aggiornate dalla apposita Commissione attiva presso il Dipartimento stesso.

La questione della libera formazione del consenso non si pone, considerata la qualità delle
alternative disponibili, ovvero l’inapplicabilità dell’istituto. È opportuno osservare che l’obbligo a riparare che consegue all’introduzione di tale previsione risulta antinomico
rispetto a tutte le indicazioni internazionali in materia di giustizia riparativa, comprese le Regole penitenziarie europee.

Art. 4. Modifiche al codice di procedura penale
Articolo 464-quater (Provvedimenti del giudice ed effetti della pronuncia) Il giudice, se ritiene corretta la qualificazione giuridica del fatto e non deve pronunciare sentenza di proscioglimento ai sensi dell’articolo 129 dispone con ordinanza la sospensione del procedimento con messa alla prova quando ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati.
Sulla scorta di quali elementi il giudice sarà chiamato a fare le sue valutazioni in materia? Su cosa fonderà il proprio convincimento, in assenza della previsione che, nel settore minorile, contempla che il giudice possa richiedere un’indagine socio familiare anche nella fase di cognizione?
Occorre tenere conto che gli attuali organici del personale di servizio sociale sono assolutamente inadeguati a sostenere qualsiasi incremento dei carichi di lavoro, il che rischia, oltretutto, di tradursi in un danno per l’imputato. Inoltre, si tenga presente che nella nota trasmessa il 20 aprile 2010 dal Dipartimento per la Giustizia Minorile al Sottosegretario alla Giustizia Caliendo si rileva (pag. 5) che “la quasi totalità delle messe alla prova viene concessa a seguito di un progetto elaborato … e gestito in sinergia dai diversi servizi coinvolti…”.
Articolo 464-quinquies (Obblighi e prescrizioni). L’ordinanza che dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova contiene le prescrizioni che il soggetto dovrà seguire in ordine ai suoi rapporti con il servizio sociale, alla dimora, alla libertà di locomozione, al divieto di frequentare determinati locali e al lavoro.
Nell’ordinanza viene altresì stabilito che l’affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del reato, tramite risarcimento del danno, restituzioni o attività riparatorie.
Sarà indispensabile chiarire se le attività riparatorie dovranno aggiungersi al lavoro di pubblica utilità o le compendieranno, in vista della necessità di non ostacolare il processo di reinserimento sociale che, secondo il costante pronunciamento della Corte costituzionale, deve rimanere il fine principale di qualunque pena.

Articolo 6. (Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354 e al DPR 30 giugno 2000, n. 230)
1. All’articolo 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354, sono apportate le seguenti modificazioni: a) dopo il quinto comma è aggiunto il seguente:
“5-bis. L’affidamento in prova al servizio sociale è subordinato alla prestazione di lavoro di pubblica utilità ai sensi dell’articolo 168-quinquies del codice penale e non può essere concesso
qualora il condannato non vi consenta”.
Riprendendo il ragionamento introdotto in precedenza – v. commento al primo comma dell’art. 3 che modifica l’art. 168 del c.p. introducendo l’art. 168 bis ‐, con questa modifica dell’ordinamento penitenziario si rende obbligatorio il lavoro di pubblica utilità alterandone l’originaria fisionomia di pena sostitutiva; inoltre, in assenza di espressa abrogazione del co. 7 dell’art. 47 O.P., si aggiunge il lavoro di pubblica utilità alla citata prescrizione ex co. 7 art. 47 che contempla, come noto, l’adoperarsi, in quanto possibile, in favore della vittima del reato:
come saranno contemperati i due istituti? Da chi? Da una parte l’obbligo accessorio del lavoro di pubblica utilità, dall’altro la previsione dell’adoperarsi in favore della vittima, nella prassi spesso sostituito con attività di “volontariato” e “riparative” coatte: è legittimo chiedersi quale fisionomia assumerà l’affidamento, quale il suo carico afflittivo e quale potrà diventarne la concreta declinazione, anche alla luce dei pronunciamenti della Corte di Cassazione circa l’illegittimità del subordinare l’obbligo costituzionale di “fare trattamento” e rieducare il reo (obiettivo centrale della misura) all’attuazione del ristoro anche simbolico del danno da reato.
In tale contesto, la locuzione “non può essere concesso qualora il condannato non vi consenta” si configura come richiamo improprio ad una consensualità che, in assenza di alternative, non può risultare liberamente formato ed espresso, secondo quanto esplicitato, si ribadisce, da tutte le raccomandazioni internazionali in materia.

A conclusione delle considerazioni di natura prevalentemente tecnica presentate, vorrei
tornare ai tre assunti esposti nell’introduzione.
Potranno le misure annunciate indurre una significativa riduzione del sovraffollamento (col contestuale ripristino delle condizioni minime per assicurare il rispetto dei diritti delle persone detenute e del personale) e configurarsi come una prima significativa iniziativa nella direzione della riduzione del ricorso alla pena detentiva che costituisce il leit motiv di tutti i ragionamenti sulle riforme della giustizia possibili?
Nel loro libro appena pubblicato, “In attesa di giustizia”, Carlo Nordio e Giuliano Pisapia, già presidenti di due Commissioni per la riforma del codice penale volute da altrettante quanto differenti maggioranze parlamentari, condividono in buona parte le analisi delle gravi criticità del sistema, sintetizzabili con le parole di Nordio: “In un’ottica di riforme le pene… non devono essere aumentate, semmai diminuite. Il primo passo, abbandonando lo stillicidio di leggine fatte à petits paquets, estemporanee e confliggenti tra loro, è limitare davvero le condotte penalmente rilevanti ai fatti realmente gravi e punire con adeguate sanzioni amministrative quelle condotte illecite che non creano danni … una scelta che richiede coraggio, perché l’impulso della politica è di assecondare le istanze di sicurezza”.

UEPE DI TRENTO, CARENZA DEL PERSONALE DI SERVIZIO SOCIALE


Con la presente si vuole evidenziare, ad un anno dall’analoga segnalazione che s’intende riportata e che ad ogni buon fine si allega, la condizione di grave disagio in cui si trova il personale appartenente all’area di Servizio sociale in servizio presso l’Uepe di Trento in relazione ad un ulteriore acuirsi della carenza delle risorse professionali.

Si sottolinea come, a fronte di una pianta organica che prevede la presenza di n. 15 Assistenti Sociali, attualmente il numero degli Assistenti Sociali effettivamente presenti in Servizio sia di sole quattro unità.

Tra questi, due sono assunte con contratto part - time verticale rispettivamente del 74% e del 55,55%. Da un punto di vista pratico ciò significa che una di loro è assente per tre mesi nel periodo compreso tra il 15 maggio ed il 30 settembre, la seconda è presente tutto l’anno per tre giorni lavorativi in settimana. Si precisa che una delle colleghe assunte con contratto part – time è già nel periodo di diritto alla pensione, diritto del quale potrebbe avvalersi già nel corso di questo anno.

Il carico di lavoro pertanto è distribuito tra le suddette quattro unità in maniera proporzionale al loro contratto di lavoro.

È nota la specificità del lavoro dell’assistente sociale nel settore penitenziario: il mandato istituzionale si attua attraverso la consulenza fornita alla Magistratura di Sorveglianza per quanto riguarda il lavoro di indagine socio – familiare a seguito di istanze di misura alternative dalla libertà e per il riesame della pericolosità sociale nelle misura di sicurezza; l’esecuzione penale esterna; la collaborazione all’osservazione ed al trattamento presso le Case Circondariali di Trento e Rovereto.

A questi si aggiungano quegli aspetti professionali che qualificano il lavoro svolto ed i risultati ottenuti, che riguardano le relazioni professionali con i Servizi sociali e sanitari del territorio, i rapporti con le Comunità terapeutiche e di accoglienza, i contatti con il mondo del lavoro, della cooperazione sociale e del volontariato, la formazione continua, sia essa individualmente scelta o promossa dall’Amministrazione.

In questa situazione di cronica carenza di risorse professionali, che è andata aggravandosi nel corso del 2008, sono sempre più evidenti le difficoltà organizzative e le ricadute sulla capacità lavorativa e sulla possibilità di interagire ed incidere profondamente con le altre agenzie nel territorio in cui si colloca l’agire professionale.

La Provincia di Trento, oltre al Comune capoluogo e ad altri pochi centri di consistente entità, è composta per l’80% da un alto numero di piccoli comuni, distribuiti su un territorio prevalentemente montano, molti dei quali distanti parecchi chilometri dal capoluogo e difficilmente raggiungibili a causa della natura stessa del territorio.

Nonostante ciò gli Assistenti Sociali continuano a considerare il territorio ed i Servizi lì presenti il loro riferimento, sforzandosi di garantire i propri interventi nei luoghi di residenza dei loro utenti.

La carenza del personale inoltre rende sempre più difficile il garantire l’efficienza dell’organizzazione stessa dell’Ufficio.

Si pensi alla presenza in ufficio ed al servizio di segretariato, alle scadenze degli incarichi, alla puntualità richiesta nell’invio delle relazioni alla Magistratura di Sorveglianza, all’organizzazione dei colloqui richiesti dagli utenti presso le Case Circondariali di Trento e Rovereto, necessari per assolvere al mandato di collaborazione all’osservazione della personalità ed al trattamento ed all’attività di collaborazione all’equipe.

È sempre più evidente come in determinati periodi (come ad esempio quello estivo), l’accavallarsi dell’assenza della collega assunta part – time (assente dal 15 maggio p.v.) con le assenze per ferie degli altri colleghi, renderà concretamente impossibile garantire la presenza in Ufficio degli Assistenti Sociali nella giornata di sabato, a meno di non compromettere lo svolgimento dell’attività anche in altri giorni della settimana.

Questo pensiero è già fonte di preoccupazione per il senso di responsabilità che ciascun singolo operatore avverte, prima che verso sé stesso, verso il lavoro, i suoi colleghi, l’Amministrazione di appartenenza.

Gli Assistenti Sociali dell’Uepe di Trento chiedono pertanto che chi ne ha la competenze e la responsabilità intervenga al più presto affinché:

- siano espletati concorsi e assunzioni di personale di Servizio Sociale;

- siano aperte le procedure di mobilità volontaria - a livello nazionale - così come previsto dall’accordo del 22 luglio 2008;

- consideri concretamente la riammissione in servizio degli Assistenti Sociali, già dimissionari, e che hanno chiesto di essere reintegrati;

- consideri la possibilità di assunzioni di personale a tempo determinato, o in part – time ad integrazione dei part - time già concessi.

Si resta in attesa di riscontro e si porgono distinti saluti

La RSU presso Uepe Trento

Friuli: Uffici dell’esecuzione penale esterna con poco personale

Messaggero Veneto, 26 aprile 2010

Sulla carta, dovrebbero essere in 24 e occuparsi della popolazione condannata, detenuta e non, distribuita nelle province di Udine, Pordenone e Gorizia. Nei fatti, invece, il personale di servizio sociale dell’Ufficio esecuzioni penali esterne delle tre province lavora da anni con meno della metà delle forze previste dalla pianta organica. Ferma restando, s’intende, l’estensione del territorio di competenza loro assegnato. Una situazione che la Cisl Fp non ha esitato a definire "esplosiva" e che le componenti delle Rsu, in un recente incontro con le organizzazioni sindacali e la direzione, hanno deciso di denunciare e, soprattutto, contrastare.

I dati, stando a quanto riferito dai rappresentanti dei lavoratori, evidenzierebbero un "buco" delle risorse umane pari al 63 per cento: appena 9 assistenti sociali in servizio, a fronte di una mole di lavoro "elevata e in continuo aumento" (le persone in carico all’ufficio, nel 2009, erano 1.502) e della paralisi "da oltre dieci anni, delle procedure concorsuali per l’immissione di nuovo personale". Da qui, la richiesta del segretario regionale Cisl Fp, Enrico Acanfora, e del suo collega territoriale, Guarino Napolitano, a "un intervento deciso e risolutore".

Appello che le Rsu hanno rivolto in primis al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, annunciando, in caso di mancato riscontro alla tutela dell’integrità psico-fisica sollecitata per i lavoratori, "la richiesta del riconoscimento, per quegli stessi lavoratori, della malattia professionale". Tre le aree sulle quali l’ormai cronica situazione di sotto organico è venuta a gravare: quella della sicurezza, quella organizzativo-funzionale e quella del servizio sociale. Sul piano della sicurezza, in particolare, l’effetto più preoccupante riguarda proprio la salute dei lavoratori. "Un elevato stress - denunciano i sindacati - che ha portato a un aumento delle assenze per malattia". Quanto all’organizzazione, la "penuria" di personale ha ridotto a un solo giorno la settimana l’apertura della sede di Gorizia e impedito l’avvio di quella di Pordenone. Le carenze riguardano anche il parco macchine, che dispone di un’auto a noleggio, una di servizio e di un solo autista chiamato a far fronte anche all’accompagnamento del direttore, con cadenza settimanale, all’Uepe di Trento, dove svolge analogo incarico. Negative anche le ricadute sul servizio primario del recupero sociale delle persone condannate: deputato alla costruzione di programmi di trattamento individualizzati, "l’ufficio - sostengono i sindacati - non è più in grado di offrire risposte rapide e adeguate. E questo non può che nuocere all’utenza detenuta, con ripercussioni anche sul sovraffollamento degli istituti

Forte stato di disagio del personale di servizio sociale dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Udine, Pordenone e Gorizia


A nome di tutto il personale di questo Ufficio EPE, la RSU ha rappresentato in sede di riunione con le OO.SS. e la direzione il grave disagio cui versa ormai da anni il personale di servizio sociale derivante dalla carenza di risorse umane, a fronte di un carico di lavoro elevato ed in continuo aumento con compiti professionali sempre più consistenti e complessi. Tale situazione si è aggravata in seguito alla mancata predisposizione di procedure concorsuali da oltre dieci anni finalizzate all’immissione di personale di servizio sociale. Inoltre si rappresenta la mancata possibilità di assegnazione di personale attraverso procedure previste dalla normativa quali distacchi, mobilità ed interpelli, provocando una carenza di personale di servizio sociale pari al 63% condizione consolidata da anni che provoca un forte disagio agli assistenti sociali in servizio. Le conseguenze del protrarsi della grave situazione descritta hanno ripercussioni ormai evidenti su più aree:

1) area della sicurezza ai sensi del D.lgs n. 81/88 e D.lgs 106/09 “nuova normativa di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” e Direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 24.03.2004 “misure finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo nelle pubbliche amministrazioni”

L’ insostenibile carico di lavoro in proporzione all’esiguo numero di assistenti sociali in servizio, le incessanti richieste da parte della Magistratura di Sorveglianza, delle Direzioni dei quattro istituti penitenziari di competenza (Udine, Pordenone, Tolmezzo e Gorizia), dell’utenza penitenziaria, delle famiglie, degli Enti locali e servizi socio-sanitari, ha determinato una condizione di saturazione tale da provocare un elevato stress che perdura da anni che ha portato squilibri di tipo funzionale con patologie organiche. In tal senso si è rilevato un aumento di assenze per malattia non riscontrabile negli anni precedenti. La stessa Direzione ha infatti richiesto al medico competente una valutazione sui rischi da stress lavoro correlato ai sensi dell’art.18 della normativa sopra indicata.

La forte carenza di organico di servizio sociale costringe il personale ad effettuare costantemente orario in eccedenza, che paradossalmente a volte non può essere autorizzato da parte della direzione per la mancata compresenza di altro personale, per motivi di sicurezza. Nonostante la volontà e la disponibilità degli assistenti sociali di garantire il buon funzionamento del servizio, tale impegno non risulta essere sufficiente per adempiere puntualmente a tutti i compiti istituzionali, lavorando solo sulle emergenze.

2) area organizzativa – funzionale

Questo Uepe ha competenza territoriale su tutta la regione, ad esclusione della provincia di Trieste, occupandosi dei soggetti residenti e/o domiciliati nelle province di Udine, Pordenone e Gorizia e dei quattro istituti penitenziari siti a Udine, Tolmezzo, Pordenone e Gorizia. Nel complesso l’utenza in carico all’ufficio nel 2009 era pari 1502 unità a fronte di 9 assistenti sociali di cui uno con funzioni di capo area con delega della firma del direttore; a ciò si aggiunge l’apertura della sede di Gorizia, gestita con la presenza una volta a settimana solo da un’unità e l’impossibilità di aprire la sede di Pordenone per l’assenza di risorse umane. Il vasto territorio di competenza spesso risulta di difficile raggiungimento considerato che la zona nord coincide con le Alpi ed i mezzi pubblici sono limitati, pertanto necessita la presenza dell’autista. L’ufficio conta solo di un auto a noleggio e di un auto di servizio e di un solo autista che deve far fronte anche all’accompagnamento del direttore con cadenza settimanale per assolvere presso l’UEPE di Trento, distante 350Km dalla sede di Udine, il doppio incarico dirigenziale dal 2008, con notevoli disagi sul piano psico-fisico come già segnalato dalla direzione ai competenti uffici superiori.

Anche il servizio di segretariato che prevede la presenza di un assistente sociale tutti i giorni dalle ore 9.00 alle ore 13.00 relativo all’accoglienza del pubblico e all’espletamento di interventi urgenti viene garantito con estremo disagio dagli operatori che devono conciliare tale attività con il resto degli interventi istituzionali.

3) area dei servizio sociale

La grave situazione menzionata non può che avere ricadute negative e inaccettabili sul servizio primario a cui gli Uffici Esecuzione Penale Esterna sono preposti, ovvero favorire il recupero sociale della persona condannata, che ha diritto a ricevere un’adeguata assistenza nonché avere accesso ai benefici previsti dall’Ordinamento Penitenziario, espletando la doppia funzione dell’aiuto e del controllo,a secondo delle misure alternative in esecuzione. La scarsità delle risorse umane dell’Area del Servizio Sociale, l’esiguità del tempo che è possibile dedicare ad un utenza così numerosa e collocata su un territorio molto vasto, non consente, per limiti strutturali e oggettivi, di garantire ai cittadini un adeguato servizio. L’Uepe, organo deputato alla costruzione di programmi di trattamento individualizzati a favore della persona condannata che coinvolgono spesso diverse Agenzie del territorio, non è più in grado di offrire risposte adeguate e sostenere il complesso lavoro di rete e di raccordo che il mandato istituzionale di tali Uffici prevede.

Il rallentamento nella predisposizione di adeguati programmi di riabilitazione esterna ha inoltre una ricaduta gravissima sull’utenza detenuta,la quale viene lesa dai diritti di accesso alle misure alternative alla detenzione,nei tempi previsti dall’Ordinamento Penitenziario e dalle circolari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con ripercussioni anche sul sovraffollamento degli istituti penitenziari, soprattutto sulle Case Circondariali, ove la popolazione detenuta ha in esecuzione pene inferiori a tre anni ed è nelle posizioni giuridiche di poter accedere a tali misure alternative alla detenzione.

La gravissima carenza di Assistenti Sociali Penitenziari sui quali ricade, quasi esclusivamente, la competenza della predisposizione di programmi trattamentali adeguati alla concessione di misure alternative alla detenzione,condiziona anche l’Organizzazione della Magistratura di Sorveglianza che, non ricevendo l’indagine socio-familiare e il relativo programma di trattamento,si trova spesso nell’impossibilità di poter decidere in merito alla concessione o meno dei benefici richiesti e costretta pertanto a dover rinviare udienze già fissate.

Questa situazione, che si protrae da anni senza spiragli di miglioramenti, alimenta lo stato di impotenza e di frustrazione dei professionisti assistenti sociali che non sono messi nelle condizioni di garantire né le dovute risposte all’utenza né gli standard di qualità degli interventi professionali.

Tale stato di cose genera uno stress significativo nello svolgimento dell’attività quotidiana e comporta un rischio per il generale stato di salute del personale dell’Area, oltre ad una palese violazione dell’art 27 della Carta costituzionale cui si è ispirata tutta la filosofia della riforma penitenziaria.

All’emanazione della legge 154 del 2005 che ha istituito i locali UEPE, con l’intento di dare maggiore visibilità all’esecuzione penale esterna, non è seguito da parte dell’amministrazione centrale alcun investimento in termini di risorse umane ed economiche, mentre si assiste a proposte da parte del Ministero della Giustizia di incrementi di risorse del comparto sicurezza, svilendo ulteriormente le funzioni di questi uffici, che si fanno carico di un numero consistente di misure alternative che in termini di risultati positivi sulla recidiva, secondo le statistiche ufficiali è di gran lunga superiore rispetto a chi esegue la pena interamente in carcere.

Questa RSU chiede con urgenza agli Organi Superiori che si facciano carico della gravissima situazione prospettata auspicando un aumento di personale di servizio sociale oltre ad avere una maggiore disponibilità di strumenti essenziali allo svolgimento degli interventi tecnici e di controllo(autovetture e Polizia Penitenziaria).

Quale forma di autotutela si è concordato di rendere pubblica attraverso le OO.SS e la stampa la grave situazione vissuta dagli assistenti sociali di questo Ufficio con indubbie ripercussioni sui diritti dell’utenza penitenziaria, oltre a valutare eventuali azioni nei confronti del Dipartimento dell’ Amministrazione Penitenziaria per una tutela dell’integrità psico-fisica dei lavoratori e in caso di mancato riscontro si potrebbe procedere con una richiesta di riconoscimento di malattia professionale.

Udine, 9 aprile 2010

Le componenti delle RSU

dell’UEPE di Udine, Pordenone e Gorizia


giovedì 22 aprile 2010

COMUNICATO STAMPA- MANIFESTAZIONE NAZIONALE: "PER LA GIUSTIZIA E PER I DIRITTI DI CHI CI LAVORA" -

ROMA, 24 APRILE 2010
ore 10.30 piazza Bocca della Verità, corteo sino a Piazza Navona


Comunicato stampa di Lina Lamonica Coordinatore nazionale penitenziari e Gianfranco Macigno Coordinatore nazionale Giustizia minorile


Sabato 24 aprile i lavoratori penitenziari e della Giustizia minorile scenderanno in piazza a fianco dei colleghi degli altri dipartimenti della Giustizia contro la politica demagogica e securitaria del governo, per difendere il diritto alla giustizia nel nostro paese e l'art. 27 della costituzione.

Il Governo annuncia grandi ed epocali riforme al sistema giustizia oramai alla paralisi.

Il Ministro Alfano annuncia interventi strutturali e legislativi per risolvere la drammatica condizione di vita nelle carceri italiane determinata da un eccessivo ed inarrestabile sovraffollamento;
Il Ministro Alfano annuncia imminente l'approvazione del disegno di legge, in discussione in commissione giustizia alla camera, che prevede la messa alla prova per chi deve scontare tre anni e la detenzione domiciliare per chi deve scontare un anno: una strana panacea alle problematiche.

Annunci propagandistici i cui contenuti ravvisano scarsa conoscenza del contesto e delle sue complesse problematiche, e la ricaduta di tali provvedimenti sulla operatività e sul servizio degli operatori rischia di essere devastante:
* mancano le necessarie risorse umane e ed economiche, pregiudiziali all'effettivo raggiungimento dell'obiettivo;
* manca una seria attenzione verso i lavoratori che con l'accordo integrativo siglato da solo due OO.SS. risultano dequalificati e mortificati professionalmente;
* manca una visione globale delle problematiche e la capacità di un progetto che prevede un intervento a tutto campo.

Il problema carceri riteniamo che non trova soluzione se non abrogando principalmente le leggi Bossi-Fini, Fini-Giovanardi ed ex Cirielli; leggi che determinano l'incessante ingresso nelle carceri di microcriminalità e di disagio ed emarginazione sociale. Esso non trova soluzioni se gli interventi non sono condivisi e partecipati con le professionalità che quotidianamente nel contesto svolgono il proprio compito istituzionale demandato dalla carta costituzionale.

Ad oggi il Ministro Alfano ed il suo Governo hanno dimostrato totale disinteresse al reale funzionamento del sistema giustizia e di tutte le sue articolazioni; hanno dimostrato pressapochismo ed improvvisazione nelle "non soluzioni": una politica iniqua che ha determinato per il pianeta carcere una involuzione culturale e sociale, un punto di non ritorno.

Per questi motivi ci appelliamo a tutte le forze democratiche del paese, all'associazionismo e alla società civile tutta, perché aderiscano e partecipino il 24 aprile alla manifestazione nazionale "per la giustizia e per i diritti di chi ci lavora", per rafforzare il dissenso ai tagli e all'accordo siglato dalla minoranza delle OO.SS. contravvenendo alle normali regole democratiche.

La civiltà giuridica e democratica di un paese si riscontra e non può prescindere dalla condizione del suo sistema giustizia e dalla condizione delle sue carceri.

Roma, 22 aprile 2010

martedì 13 aprile 2010

La Fp Cgil - Podda e Crispi- scrivono al Ministro Alfano sul piano carceri



Al Ministro della Giustizia
On.le Angelino Alfano


L’ordine del giorno stabilito per la convocazione odierna prefigura una priorità di argomenti, all’interno della complessiva tematica carceraria, non integralmente condivisibili.
Infatti, come già si è avuto modo di affermare nel corso del precedente incontro, 26 gennaio 2010, non è percepibile una visione d’insieme in cui siano inclusi in chiave risolutiva i singoli problemi che affliggono il mondo penitenziario.
A nostro avviso, comunque, la priorità va conferita ad un disegno legislativo che tenda a modificare sensibilmente i flussi di accesso e i periodi di permanenza nel circuito carcerario. Riteniamo, infatti, che a legislazione invariata, qualsiasi modifica e ampliamento del patrimonio strutturale penitenziario possa risultare, nel breve e medio periodo, insufficiente.
In questo senso il disegno di legge C. 3291 presentato dal Ministro lo scorso 9 marzo con alcune innovazioni circa l’esecuzione delle pene deve avere la precedenza su tutte le altre iniziative, confidando anche che l’iter parlamentare possa ampliare le timide aperture che esso pur contiene, e semmai introdurne anche di nuove e più incisive.
La Fp Cgil non intende quindi essere complice di un disegno di puro e semplice assistenzialismo edilizio coniugato sul versante penitenziario, che non si inserisca in un piano organico di interventi che preveda, oltre a provvedimenti sul piano legislativo, anche altre iniziative sul versante delle risorse umane destinate a gestire gli istituti e servizi penitenziari.
L’attuale crisi del mondo penitenziario non può avere risposte parziali, o peggio ancora strumentali ad interessi che nulla hanno a che vedere con quelli legittimi che sono propri dei soggetti che assolvono compiti istituzionali.
In tal senso siamo favorevoli ad interventi di edilizia penitenziaria che mirino alla rivalutazione del patrimonio esistente, alla sua ristrutturazione per l’utilizzo di sistemi moderni di controllo finalizzati ad una maggiore razionalizzazione dell’impiego del personale, ed anche al suo ampliamento. Ma condizione essenziale è l’ utilizzo delle ordinarie e legali procedure di realizzazione e che si evitino speculazioni che, con il pretesto emergenziale, andrebbero a precostituire facili arricchimenti dei soliti e ben noti gruppi economici. Siamo convinti che le ordinarie procedure possano essere svolte in tempi ragionevoli se sostenute da un’adeguata volontà politica e dell’amministrazione.
Non siamo pregiudizialmente contrari ad affrontare una discussione su nuovi sistemi di costruzione,di edificabilità e di collocazione delle carceri, purché di questi si dimostri la agibilità tecnica, la compatibilità con il quadro normativo e finalistico dell’esecuzione penale, la concreta percorribilità gestionale.
Così come non siamo contrari ad esaminare l’applicabilità di sistemi di controllo elettronici su vasta scala, anche al fine di rendere maggiormente accessibili misure di tipo liberatorio, e sempre con la condizione irrinunciabile dl rispetto della dignità della persona.
Ma ci piacerebbe, infine, ma non da ultimo, anche ascoltare dal Ministro una proposta convincente su come intenda affrontare, ovviamente in maniera programmatica e progressiva, la crisi acuta che sta vivendo il personale penitenziario in tutte le sue componenti, della polizia penitenziaria, del comparto contrattuale ministeri, della dirigenza, per i problemi di carenza degli organici, di scadenze e di elusione contrattuale, di spinta motivazionale.
Siamo cioè in attesa di conoscere quale politica del personale sarà condotta per una parte ancora cospicua dell’attuale legislatura.

Roma, 13 aprile 2010

Il Segretario nazionale FP CGILAntonio CRISPI l Segretario Generale FP CGILCarlo PODDA